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Fine anno col botto per le banche centrali

Fed, Banca Centrale Europea, Banca d’Inghilterra: i principali istituti centrali hanno reso note le ultime decisioni dell’anno per contrastare l’inflazione.

L’avevano detto tutti, e alla fine così è stato. Come largamente previsto, la Federal Reserve ha chiuso l’anno con un ulteriore rialzo dei tassi di interesse, ma inferiore rispetto a quelli varati in precedenza. In compenso, ha alzato le previsioni sul picco che verrà raggiunto dai tassi di interesse USA. Sulla stessa linea la Banca Centrale Europea e la Banca d’Inghilterra, che a fronte di un’inflazione ancora elevata hanno deciso di proseguire sulla strada dei rialzi. Per le autorità monetarie è stato anche il momento delle proiezioni economiche. Curioso di sapere cosa è emerso? Ecco una sintesi delle decisioni e delle dichiarazioni.

La Fed non si fida del calo dell’inflazione

La Fed ha aumentato i tassi di riferimento di 50 punti base, un quarto di punto percentuale in meno rispetto ai 75 punti base precedentemente varati, al 4,25%-4,50%, massimo da 17 anni. La mossa, largamente attesa, è avvenuta in un momento in cui negli Stati Uniti d’America l’inflazione sta mostrando i primissimi segni di cedimento. A novembre, per il quinto mese consecutivo, la variazione su base annua è apparsa in frenata. Cioè, c’è stato sempre un incremento importante, ma meno di quello rilevato nel mese precedente. E, soprattutto, meno delle attese.

L’indice dei prezzi al consumo è salito del 7,1% su base annua, contro il +7,7% di ottobre, il dato più basso dal dicembre del 2021. Meglio delle previsioni di mercato, che indicavano una variazione del +7,3%. Rispetto al mese precedente, il tasso è salito dello 0,1%, il minimo da tre mesi. Anche in questo caso battendo le stime degli analisti, che si aspettavano un +0,3%.

Malgrado il rallentamento, però, l’inflazione è quasi quattro volte più alta dell’obiettivo del 2% cui punta la Fed. E pesa sui consumatori. Ragion per cui i rialzi non terminano con il 2022. Anzi.

Proiezioni 2023: la Fed vede una crescita più bassa

C’è stato però lo spazio per una revisione al ribasso dell’entità dei rialzi. Perché l’inflazione sta rallentando? Non tanto, o non solo. Tassi d’interesse sempre più alti pesano sulla crescita, e di questo i banchieri centrali devono tener conto. In più, sanno che le decisioni di politica monetaria si riverberano sui prezzi in differita. Vogliono quindi vedere i dati prima di valutare le prossime mosse.

E veniamo alle proiezioni sul prossimo anno. Come ti abbiamo raccontato in passato, le riunioni del FOMC di marzo, giugno, settembre e dicembre sono particolarmente attese perché in quelle occasioni la Fed condivide appunto le sue proiezioni sull’economia.

Cosa ci dicono quelle di dicembre? Ecco una sintesi.

  • Le previsioni di crescita per il prossimo anno sono state riviste al ribasso, allo 0,5% (nel quarto trimestre 2023 rispetto al quarto trimestre 2022) dall’1,2% delle proiezioni di settembre.
  • Il PCE core – il deflatore della spesa personale al consumo core che la Fed preferisce monitorare quando si parla di prezzi – è visto ora al 3,5% a fine 2023 dal 3,1% precedente, con il 2024 corretto al 2,5% dal 2,3%.
  • Il tasso di disoccupazione salirà al 4,6% dall’attuale 3,7%.
  • Il traguardo dei tassi è ora fissato al 5,1% dal 4,6% indicato a settembre.
  • I tassi scenderanno al 4,1% nel 2024 e al 3,1% nel 2025, dunque in modo graduale, e comunque non prima di vedere l’inflazione convergere verso l’obiettivo del 2%.

Nel giro di un anno, il cambio di passo è completato: siamo partiti, come forse ricorderai, da un’inflazione ritenuta transitoria per arrivare a un dato in discesa guardato dalla Fed con grande diffidenza. Nessuna apertura quindi alla cosiddetta “dovishness”, l’atteggiamento da “colomba”, accomodante verso i tassi e il credito. Tutto questo spiega la reazione dei mercati. Ma ci torniamo. Prima, facciamo un salto in Europa.

BCE e BoE: cosa si è deciso in Europa?

La palla, infatti, è passata poi alla BCE e alla Bank of England, che nel primo pomeriggio di giovedì 15 dicembre hanno annunciato le loro decisioni di politica monetaria. Entrambe hanno alzato i tassi nella misura attesa dal mercato, cioè anche loro di 50 punti base. Ma non è il solo dato da tenere in considerazione.

Il Consiglio direttivo dell’Eurotower ha anche detto di prevedere ulteriori incrementi nei prossimi mesi per riportare l’inflazione verso l’obiettivo del 2% e, soprattutto, ha indicato la strada per la riduzione del suo bilancio, elemento su cui si concentrava la curiosità di osservatori e investitori: comincerà da marzo 2023, con un ritmo di 15 miliardi di euro al mese fino alla fine di giugno, poi si rivaluterà.

Per quanto riguarda il PEPP, lanciato allo scoppio dell’epidemia, l’indicazione è che si andrà avanti con il reinvestimento dei titoli in scadenza “almeno fino alla fine del 2024. In ogni caso, la futura riduzione del portafoglio del PEPP sarà gestita in modo da evitare interferenze con l’adeguato orientamento di politica monetaria”.

Insieme alle sue decisioni, la BCE ha poi aggiornato le prospettive macro per l’Eurozona.

  • L’inflazione è ora vista in media all’8,4% nel 2022 e al 6,3% nel 2023. I prezzi dovrebbero poi registrare una “marcata riduzione”, fino a raggiungere una media del 3,4% nel 2024 e del 2,3% nel 2025.
  • Il PIL dovrebbe attestarsi al 3,4% nel 2022, allo 0,5% nel 2023, all’1,9% nel 2024 e all’1,8% nel 2025.

Nel Regno Unito, intanto, dove l’economia è già entrata in recessione e l’inflazione è in rallentamento ma ancora a doppia cifra, la Bank of England ha deciso di alzare ulteriormente i tassi di interesse di 50 punti base, portando il tasso di riferimento al 3,5%. “Vi sono notevoli incertezze sulle prospettive”, hanno evidenziando i membri del board, precisando che in caso di pressioni inflazionistiche più persistenti la Bank of England sarebbe “pronta a rispondere con forza”.

Come hanno reagito i mercati?

Non benissimo: negli USA, previsioni di crescita prossime allo zero conferiscono maggior concretezza all’ipotesi recessione. Anche perché, appunto, la Fed non sembra affatto intenzionata a fermarsi e punta a portare i tassi al 5,1%. “I trader non l’hanno bevuta”, commenta però Eddie van der Walt, deputy managing editor di Markets Live a Londra. “Alle 16.00 di New York, il tasso terminale era del 4,87%, appena un punto base in più rispetto al giorno precedente”. Significa che la banca centrale si fermerà qualora le ripercussioni sull’economia si rivelassero più pesanti di quanto finora messo in conto? Vedremo.

Anche le Borse europee, già in rosso dopo la Fed, hanno esteso le perdite in scia all’indicazione di nuovi aumenti dei tassi da parte della BCE, mentre lo spread tra BTp decennale e Bund tedesco di pari durata è volato sopra quota 200 punti nel pomeriggio del 15 dicembre.

Investire con i tassi in rialzo

Come oramai ci senti ripetere da mesi, il contesto è sicuramente sfidante. Ma chi si ferma – o chi proprio adesso liquida tutto con l’idea di mettersi al riparo – è perduto: non investire o, peggio ancora, dismettere i propri investimenti in questo momento può far perdere le prossime occasioni di rimonta. E può costare soldi. L’unica è affidarsi a un solido piano di investimento, da mettere a punto con un consulente finanziario, senza discostarsene, in barba agli alti e bassi dei mercati che sempre ci sono stati e sempre ci saranno. E di ogni dubbio o curiosità, puoi parlarne con il tuo Financial Coach.

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