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Sicurezza energetica: big a confronto a Houston

All’annuale conferenza CERAWeek si sarebbe dovuto parlare di rinnovabili. Invece si è parlato dell’emergenza aperta dalla guerra in Ucraina

Ti ricordi il dilemma di Amleto? “Se sia più nobile per la mente sopportare i colpi dell’oltraggiosa fortuna o prendere le armi contro un mare di dubbi, opporsi a loro e sconfiggerli”? Con i poderosi rialzi delle materie prime energetiche in corso, l’“essere o non essere” si fa forse meno poetico, ma non meno vitale: è più nobile tornare ai combustibili fossili oppure opporsi a loro e cogliere l’occasione per sostituirli una volta per tutte con le fonti rinnovabili?

Questo l’interrogativo che ha attraversato tutta la CERAWeek, conferenza sull’energia si è aperta a Houston, in Texas, lunedì 7 marzo, e si è svolta nella stessa settimana in cui i prezzi del greggio hanno raggiunto livelli mai visti dalla crisi finanziaria del 2008. Qui di seguito, le quotazioni del petrolio WTI.

POST 860 Summit materie prime (CERAweek) grafico1

All’origine dell’impennata, l’invasione della Russia in Ucraina. Che sta pesando sulle forniture di materie prime. L’effetto combinato dei rincari – abbiamo parlato di petrolio, ma ci sono anche gas, metalli e beni agricoli – sta già rallentando la ripresa economica post-Covid. E se fino a poco tempo fa proiezioni e stime dei principali organismi internazionali sul 2022 parlavano di recupero e di crescita, ora si comincia a temere la stagflazione. Ovvero, quel mix tra prezzi in rialzo (inflazione) e rallentamento della crescita (stagnazione).

Molto dipenderà a questo punto da come i protagonisti del comparto energetico reagiranno alle sfide poste dalla guerra in Ucraina. Da qui, il dilemma: cogliamo la palla al balzo e andiamo avanti tutta con le rinnovabili oppure facciamo un (momentaneo?) dietrofront e torniamo ai combustibili fossili?

Houston, abbiamo un problema: big dell’energia a confronto

Cominciamo col dire che CERA sta per Cambridge Energy Research Associates, una società di ricerca e consulenza. Fondata nel 1983, oggi fa parte di IHS Markit, che a sua volta è parte di S&P Global. Dal 1983 a oggi, la CERAWeek si è tenuta una volta all’anno. Cancellata nel 2020, quando è esplosa la pandemia di Covid-19, è tornata nel 2021, in un momento in cui la domanda di petrolio e gas stava iniziando a rimbalzare. Allora, i massimi dirigenti, compresi quelli di Shell e BP, suggerirono che il picco della domanda di petrolio potesse essere stato raggiunto. Invece, il consumo è aumentato. E oggi il tema della sicurezza energetica è più che mai al centro della scena.

Il più grande raduno mondiale dei leader dell’industria energetica, infatti, si è svolto – come abbiamo detto – sullo sfondo dell’invasione russa dell’Ucraina, che ha provocato un vero e proprio shock dei prezzi. All’industria si sta chiedendo di fare di più. Ma su cosa?

L’imperativo della sostenibilità: a che punto sono le rinnovabili?

Nel contesto della lotta ai cambiamenti climatici, le rinnovabili sono oggetto d’attenzione non solo perché – contrariamente alle fonti fossili – non sono soggette a esaurimento, ma anche perché non contribuiscono all’aumento dei gas serra, categoria nella quale rientra l’anidride carbonica. Eppure, finora non hanno guadagnato il centro della scena come avrebbero dovuto: basti pensare che, secondo le statistiche diffuse a settembre dall’Agenzia Internazionale dell’Energia, nel 2019 una larga fetta dei consumi finali a livello globale era ancora soddisfatto dall’oro nero.

POST 860 Summit materie prime (CERAweek) grafico2

Ma se i consumi sono ancora orientati alla tradizione, le normative nazionali e internazionali – preso atto degli effetti negativi del riscaldamento globale indotto dall’aumento della concentrazione dei gas serra nell’atmosfera – hanno rivolto il loro sguardo proprio alle rinnovabili. Indirizzando in questo senso anche le scelte di investitori e azionisti delle compagnie energetiche. Risultato: l’industria, additata da più parti per il suo ruolo nell’emergenza climatica in atto, ha iniziato a mettere un freno ai suoi progetti nel campo delle fonti fossili.

E ora che l’emergenza bussa alla porta, questo potrebbe essere un problema.

Gli USA dicono “no” al petrolio e al gas dalla Russia

Un esempio, per capirci. L’8 marzo il presidente USA Joe Biden ha vietato le importazioni negli States di petrolio, gas naturale e carbone dalla Russia con effetto immediato. “Nel 2021”, informa la US Energy Information Administration, “gli Stati Uniti hanno importato circa 8,47 milioni di barili al giorno di petrolio da 73 Paesi”. Il termine usato è “petroleum”, che comprende petrolio greggio, idrocarburi gassosi liquidi (HGLs), prodotti petroliferi raffinati come benzina e gasolio, e biocarburanti.

Questa la top 5 dei fornitori di “petroleum” agli USA:

  • Canada (51%)
  • Messico (8%)
  • Russia (8%)
  • Arabia Saudita (5%)
  • Colombia (2%)

Come si fa, adesso, senza le forniture russe?

Gli Stati Uniti stessi estraggono petrolio con il cosiddetto “fracking”. Praticamente, pompando liquidi sotto pressione, si fratturano gli strati rocciosi più profondi onde agevolare la fuoriuscita di petrolio (ma la tecnica si usa anche per il gas). Non è, come si può intuire, un’operazione priva di impatto ambientale. Anzi.

Con l’elezione di Joe Biden alla presidenza USA e il ritorno del “green” tra le parole d’ordine, negli ultimi due anni le compagnie energetiche non si sono esattamente buttate a capofitto su questa attività. La quale, tra l’altro, non è così redditizia dopo i primi anni, come sanno bene gli azionisti. Ma ora, spiegano gli esperti, proprio perché negli ultimi anni gli investimenti in petrolio e gas sono stati scoraggiati, non è tanto facile per l’industria far fronte alle richieste di un incremento della produzione. Anche perché – sostiene qualcuno – in fondo agli azionisti fa comodo un’offerta risicata che tiene alte le quotazioni.

Quindi, ricapitolando: urge più energia a breve per compensare le forniture russe, ma le compagnie non vorrebbero investirci troppi soldi perché le fonti fossili sono teoricamente destinate al pensionamento; però, per stare al passo con la domanda, dovrebbero investire eccome. Serve un compromesso tra domanda e produzione. E non solo.

Le rinnovabili possono avere un ruolo in tutto questo?

“Il mondo continuerà a chiedere più energia, non meno. E la questione è se questa energia debba arrivare dagli Stati Uniti o da regimi ostili come la Russia”, ha detto Frank Macchiarola, vicepresidente senior di politica, economia e affari normativi del gruppo industriale American Petroleum Institute. Dilemma importante, tanto per tornare ad Amleto.

Se nel breve l’urgenza resta, nel medio periodo la sola chance per non tornare tout court nel solco fossile è un mix tra una (momentanea) maggiore produzione di combustibili fossili e (sempre) maggiori investimenti in fonti di energia rinnovabile. Non manca chi sostiene che i costi elevati di petrolio e gas potrebbero avviarne al tramonto la domanda e rendere le rinnovabili più competitive. Senza dimenticare il nucleare, che l’Europa ben ricorda nella sua tassonomia.

“Dobbiamo parlare di diversificazione, abbiamo bisogno di più energia rinnovabile nel paniere, per una minore dipendenza energetica”, ha detto Josu Jon Imaz, amministratore delegato della spagnola Repsol.

Investire nella nuova grande rivoluzione energetica

Insomma, un’edizione della CERAWeek pensata per parlare di transizione energetica ed energie rinnovabili si è tramutata in un summit dell’emergenza. Al momento, una sola è la certezza: l’energia è e resta un tema d’investimento, sostenuto dalla forte domanda. Senza dimenticare che investire in materie prime, anche energetiche, attraverso un fondo può offrire una protezione dall’inflazione galoppante. E per ogni dubbio o bisogno di chiarimento, c’è sempre il consulente finanziario.

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