Piano europeo 20-20-20: a che punto siamo?
Dodici anni fa, la Commissione Europea approvava il piano sul taglio alle emissioni, la conversione alle rinnovabili e l’efficienza energetica: cos’è cambiato?
Avete presente quando dite “da lunedì dieta” e poi questo rivoluzionario lunedì alimentare non arriva mai? Con gli impegni sul clima è un po’ così. O, almeno, ciò vale per quei pochi Paesi e aree geopolitiche intenzionati a dotarsi di una qualche strategia. Giorni fa abbiamo conosciuto i dettagli dello European Green Deal presentato a Strasburgo: 1.000 miliardi di euro per ammodernare l’UE nel segno della sostenibilità, tra finanziamenti pubblici e privati. Ottimo, no?
Certamente. Peccato che esattamente 12 anni fa – era il gennaio del 2008 – il quotidiano La Repubblica, fra gli altri, annunciava il “via libera dal collegio dei commissari della Commissione Europea al piano dell’Unione per contrastare i cambiamenti climatici”: un pacchetto di proposte legislative che fissava una serie di obiettivi sintetizzandoli nella suggestiva sigla “20-20-20”. In cosa consisteva, nel dettaglio? E, soprattutto, in questi 12 anni ha prodotto qualche risultato? Vediamo di far luce su questo.
C’era una volta il Piano 20-20-20.
Assumendo i dati del 1990 come punto di riferimento, il Piano 20-20-20 si poneva tre obiettivi: il raggiungimento del 20% della produzione energetica da fonti rinnovabili; il miglioramento del 20% dell’efficienza energetica; un taglio del 20% nelle emissioni di anidride carbonica. Il tutto, naturalmente, entro il 2020. Cioè, quest’anno.
Entro la medesima scadenza, l’Italia era chiamata a tagliare il 13% di emissioni di anidride carbonica nei settori non inclusi nel sistema di scambio di emissioni (ETS) e ad aumentare del 17% rispetto ai livelli del 2005 i consumi energetici da fonti rinnovabili. Il pacchetto di misure “made in EU”, varato dopo la scadenza del Protocollo di Kyoto, è entrato in vigore nel giugno del 2009 e ha avuto validità dal 2013 a quest’anno.
Lo scoglio delle resistenze nazionali.
L’ostacolo che si profilava allora come oggi era rappresentato dai negoziati con gli Stati membri, in un continente dove non ci sono solo importanti produttori di petrolio e gas naturale, ma anche di carbone, la fonte fossile più inquinante di tutte.
Dati che, per inciso, si inseriscono in un contesto in cui, a fine 2018, questi erano i maggiori produttori a livello mondiale.
Non solo industria estrattiva: gli ambiziosi obiettivi 20-20-20 dovevano coinvolgere in modo importante, sul fronte della riduzione delle emissioni di CO2, anche le case automobilistiche, con un incremento della quota di utilizzo dei biocarburanti nel settore dei trasporti del 10%. L’impegno europeo voleva porsi come esempio in vista della COP15 di Copenaghen del dicembre 2009, conferenza in occasione della quale si sperava di riuscire a raggiungere un accordo per il contrasto ai cambiamenti climatici. L’accordo non è arrivato: tuttavia, l’UE ha voluto promuovere il suo impegno unilaterale.
E oggi a che punto siamo?
Anche grazie al successo dei Verdi alle elezioni europee dello scorso maggio (i loro seggi sono saliti da 50 a 75), il Parlamento europeo oggi ha l’opportunità di imprimere una nuova spinta agli impegni per la lotta all’emergenza climatica. In parte lo dimostra già lo European Green Deal. Ma intanto a che punto siamo rispetto alla dieta iniziata nel 2008? Di seguito, una sintesi per punti degli obiettivi raggiunti e di quelli mancati, secondo l’osservatorio di Openpolis.
In merito alle emissioni di gas serra:
- nel complesso, l’UE ha raggiunto l’obiettivo, con un -21,66% nel 2017;
- nel dettaglio, però, solo 15 Paesi l’hanno raggiunto e l’Italia non è fra questi (emissioni ridotte di meno del 16%);
- in alcuni casi ha contribuito il passaggio da un’economia basata sull’industria a una basata sul terziario: si veda il Regno Unito, che ha abbassato le emissioni del 37,6%.
Sulle rinnovabili, siamo messi così:
- l’UE è riuscita a raddoppiarne la percentuale rispetto al 2004 (8,53%), ma nel 2017 non aveva ancora raggiunto l’obiettivo;
- tutti i Paesi UE hanno comunque aumentato la percentuale di rinnovabili fra il 2004 e il 2017 e 15 hanno conseguito il raddoppio (pur partendo talvolta da livelli molto bassi);
- l’Italia ha raggiunto il suo obiettivo nazionale.
Infine, sull’efficienza energetica:
- l’UE è ancora molto lontana dall’obiettivo;
- gli Stati che hanno superato il target individuale sono 12, compreso il nostro; altri 7 sono molto vicini, Francia e Germania lontane.
Ma questi obiettivi non sono solo europei.
Ok, forse siamo stati un po’ pessimisti: è vero che non abbiamo perso tutti i chili che ci eravamo prefissati di far fuori con la nostra dieta, ma qualche progresso c’è stato. A questi passi avanti si affianca il rafforzamento degli obiettivi previsti dal Piano 20-20-20 attraverso l’aggiornamento al 2030 (“Framework 2030”) e, ultimo ma non per importanza, il recentissimo European Green Deal. Ovvio, non bastano gli sforzi dell’Europa, che peraltro al suo interno deve mettere d’accordo 27 teste: la Polonia, per esempio, ha storto il naso davanti al Green Deal perché penalizzerebbe la sua economia ancora legatissima al carbone. Bisogna che pure il resto del mondo faccia la sua parte.
E ce ne sarebbe proprio la necessità, considerando che a livello globale le emissioni di CO2 risultanti dalla combustione dei carburanti sono salite dagli anni Novanta: un bel +57,5% tra il 1990 e il 2015, anno dell’accordo di Parigi abbandonato senza rimpianti dall’amministrazione Trump. Né si è mosso nulla più di recente, anzi: a dicembre c’è stata la doccia fredda della COP25, che non ha portato risultati in termini di risoluzione congiunta sulla regolazione globale del mercato del carbonio.
Il ruolo degli investimenti green. Le scelte degli investitori, istituzionali ma anche retail, possono fare la differenza, dando forza a un Megatrend che, recependo la crescente sensibilità dell’opinione pubblica sui temi della sostenibilità climatica e ambientale, finirebbe con l’imprimere la giusta spinta a una politica a dir poco resistente al cambiamento. Un esempio? BlackRock, un tempo contestatissima dai movimenti ambientalisti per gli investimenti nelle fonti fossili, recentemente ha annunciato la volontà di abbandonare il carbone per puntare più convintamente sui criteri di sostenibilità. Insomma, se non si muove Maometto, in qualche modo dovrà farlo la montagna. E senza aspettare troppo.