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Inflazione statunitense a Fed: c’è ancora molto da fare

A giugno l’inflazione negli Stati Uniti d’America ha registrato una variazione annua del 9,1%. È il maggior rialzo dal 1981. Come reagirà la Fed?

Alla faccia dell’aumento dei prezzi: nel mese di giugno, l’inflazione negli Stati Uniti d’America ha registrato una variazione dell’1,3% mese su mese e del 9,1% su base annua. Questo in riferimento al dato principale, che registra così il maggior rialzo dal novembre del 1981. “L’unica consolazione”, scrive su ING Think James Knightley, Chief International Economist, “è che non è tanto alto quanto segnalava il falso rapporto diffuso ieri, il quale suggeriva una lettura del dato principale pari al 10%”.

Il dato cosiddetto “core”, che esclude le componenti più volatili come energia e alimentari, ha fatto meglio ma non troppo: +0,7% per il dato mensile e +5,9% per la voce che si riferisce alla variazione anno su anno. E attenzione: entrambe le letture superano di 0,2 punti percentuali le attese del consensus.

Inflazione chiama Fed: l’energia è alle stelle

Tutto questo ha convinto definitivamente la Federal Reserve, la banca centrale statunitense, a procedere con un rialzo di 75 punti base il 27 luglio, anche a fronte dei solidi dati di giugno sui posti di lavoro. Così commenta ancora Knightley su ING think.

“Anche se il tasso core è rallentato dal 6% al 5,9%, non c’è molto che possa alleggerire la pressione sulla Federal Reserve affinché faccia di più per controllare l’inflazione”.

Ma dicevamo del dato principale, ai massimi dal novembre del 1981, e che include anche i prezzi di energia e food. Ecco cosa registriamo a riguardo.

  • I prezzi dei generi alimentari sono aumentati di un altro 1% su base mensile e del 10% su base annua;
  • la sola benzina (“gasoline” nel rapporto dello US Bureau of Labor Statistics) è salita dell’11,2% su base mensile e addirittura – tieniti forte – del 59,9% anno su anno.

Qui di seguito, la sintesi grafica.

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Inflazione USA: cosa implicano questi dati?

“Speriamo che questo segni il picco dell'inflazione principale”, scrive Knightley su ING think, “soprattutto con i prezzi della benzina scesi di circa il 5% rispetto al picco di giugno”. Non siamo però nelle condizioni di poter escludere un altro shock dell’offerta. E in ogni caso la discesa potrebbe rivelarsi lenta, considerata la continua pressione al rialzo dei prezzi dei generi alimentari e il tempo necessario affinché l’eventuale svolta sui costi delle case si ripercuota sull’indice dei prezzi al consumo.

E poi in giro c’è ancora molta domanda repressa, soprattutto sul versante del tempo libero, dell’ospitalità e del turismo: questo significa che mediamente siamo tutti più disponibili ad attingere alla riserva dei risparmi accumulati e a pagare prezzi più alti per fare quelle cose a cui abbiamo dovuto rinunciare negli ultimi due anni. E ciò spiega come mai l’inflazione nel settore dei servizi appaia così forte in questo momento.

La domanda continua a superare l’offerta

Non solo: questo spiega anche come mai la domanda continui a superare la capacità dell’offerta. Perché i prezzi vadano giù, bisogna che la prima si metta allo stesso livello della seconda, infatti. “L’ideale”, sottolinea Knightley, “sarebbe che ciò avvenisse attraverso il canale dell’offerta stessa”.

Sotto questo punto di vista, sono tre i fattori chiave:

  • riduzione del rischio geopolitico per abbassare i prezzi dell’energia;
  • maggior fluidità nelle catene di approvvigionamento per migliorare i flussi e ridurre il potere di determinazione dei prezzi dei fornitori;
  • maggiore offerta di lavoro per riempire i posti vacanti negli Stati Uniti e togliere un po’ di “carburante” ai costi dell’occupazione.

Ma questo non sta accadendo e potrebbe non accadere per un po’ di tempo: il che chiarisce definitivamente come mai la Fed abbia finito col gettare la spugna sull’idea che l’inflazione potesse essere solo un fenomeno transitorio.

I tassi Fed cresceranno

Tutti gli analisti – o quasi – concordano su un punto: e cioè che adesso la Federal Reserve non può far altro che intervenire per raffreddare la domanda. Come? Attraverso un aumento dei tassi d’interesse, come quello in programma il 27 luglio. Finora ha reagito in ritardo, d’ora in poi dovrà muovere le sue pedine sulla scacchiera più velocemente e in modo più incisivo.

Da ciò i timori di uno spiacevole effetto collaterale sull’economia: la recessione (la “R word”, come la chiama Bloomberg). Perché si sa, più tosta è la malattia, più tosta deve essere la cura. Con un maggior rischio di effetti collaterali non sempre facili da gestire. “La Fed”, conclude Knightley, “ha accettato il fatto che una crescita più debole è il prezzo da pagare per tenere sotto controllo l’inflazione”.

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